Sulla tavolozza dei colori che dipingono l’estate delle nostre montagne e vallate, da qualche tempo, è ritornato ad essere presente l’oro. E’ l’oro delle spighe di orzo e di frumento che per fortuna son ritornate ad ondeggiare cullate dalla brezza agostana in numerose località della Provincia.
Per la maggior parte di noi tutto ciò rappresenta una vera novità, ma la realtà è ben sintetizzata dalla celebre frase che impunemente ho preso in prestito per titolare questa mia cronaca.
Già, perché da qualche anno è ripresa la coltivazione di questi ed altri cereali di cui si era quasi persa la memoria ma che, fino agli anni trenta – quaranta, era assai diffusa in tutto il territorio bellunese, dal Comelico al Feltrino ed in particolare nell’Agordino.
La coltivazione dell’orzo, vanta una tradizione secolare, di cui si ritrovano tracce scritte sin dal 1800, soprattutto per quanto riguarda il consumo umano del prodotto decorticato.
Numerose sono le citazioni in vari testi, libri e riviste sia dal punto di vista storico che culinario. Val la pena di ricordare, ad esempio, quanto riportato nell’opera di fine ottocento di Antonio Maresi Bazolle “Il possidente Bellunese” (opera manoscritta tra il 1868 e il 1890, costituita da oltre mille pagine di scrittura minuta e fitta e conservata alla Biblioteca civica di Belluno).
Egli descrive, con particolare dovizia e interessante stile letterario che merita la testuale citazione, le varie coltivazioni in uso in quel tempo e dedica un capitolo specifico all’orzo, nominando addirittura due ecotipi autoctoni: il Nostrano e l’Agordino.
…Dell’orzo. A differenzia del frumento e della segale, l’orzo viene seminato in primavera. La qualità dell’orzo qui usuale è quella la cui spiga ha quattro righe; talvolta però viene seminato anche di quello a due righe soltanto, e che è quello che si usa nell’agordino. Quest’ultimo orzo ha il grano più grosso dell’altro, e così ha la paglia più consistente, ma tutto calcolato il tornaconto sta ancora per
l’orzo nostrano. Si aggiunga che per seminare l’orzo da due righe bisogna far venire la semente dall’agordino, e questa costa cara, perché colassù si esige sorgo turco per orzo, peso per peso; e l’orzo agordino seminato qui si imbastardisce coll’orzo nostrano, per cui bisogna sempre rinnovare la semente. L’orzo non viene utilizzato riducendolo a farina come il frumento o la segale, ma viene mangiato in grano, adoperandolo a farne minestre, e cioè tanto da solo, come mescolato con fagioli. Questa minestra è specialmente buona se vi si immette a candirla qualche tocchetto di carne di maiale, ed è salutare perché rinfrescante. I contadini ne fanno grande uso, mentre le classi elevate mostrano di non degnarsene. Per essere mangiato in minestra, il grano dell’orzo deve essere liberato dalla buccia che lo ricopre, deve essere cioè, pilato. Questa operazione viene fatta dal mugnaio che vi ha un apposto ordigno. L’orzo più bello, più grosso, e più netto che si trova qui è quello che viene dall’Agordino, e che è portato qui pilato e pronto ad essere condito a minestra…
Le varietà un tempo coltivate erano di tipo distico, cioè con spighe appiattite con due sole file di semi o cariossidi aristate. Le piante superavano frequentemente il metro d’altezza, con portamento eretto o leggermente arcuato.
Secondo le tradizionali tecniche di coltivazione, l’orzo veniva seminato in primavera, tra aprile e
maggio, e veniva raccolto a mano in piena estate, falciandolo con apposite impreste: sesola o faldìn da forment.
Successivamente allo sfalcio, le piante venivano raccolte in fasci (manèi) e disposte sul campo in modo da formare un “treppiede” a forma di covone. Questi covoni restavano in campo per la prima essicazione, in seguito venivano portati in appositi balconi (piòi), al sole, per favorire l’eliminazione dell’umidità residua.
Successivamente avveniva la trebbiatura (battitura) manuale con l’uso di un particolare attrezzo di legno detto ferél. Questo prezioso cereale era destinato esclusivamente all’alimentazione umana, “decorticato a pietra” per la preparazione di numerose varianti della famosa menestra de orz, la quale rappresentava spesso l’unica alternativa in tola all’immancabile polenta, oppure “tostato co la balòta”, come surrogato popolare al ben più rinomato, ma estremamente caro, caffè.
La decorticazione viene ancora oggi effettuata, ormai solo in pochissimi molini, attraverso l’abrasione meccanica delle cariossidi, con antiche attrezzature e rulli in pietra del tutto particolari, denominati “pilaorzo” o “pestino a mole” o in dialetto “pesta orz”.
Tale lavorazione, a differenza della perlatura, permette di ottenere un prodotto più ricco in fibra, preservando una maggior quantità di nutrienti in genere, nei cereali, infatti, questi sono prevalentemente collocati negli strati esterni del seme, a ridosso del pericarpo.
Altro uso che è giusto ricordare, perché meno noto, era quello per l’estrazione del malto, insostituibile ingrediente nella preparazione della birra.
La rinomata “Birreria Pedavena”, infatti, fondata dalla Famiglia Luciani, aveva il suo stabilimento di produzione originario a Canale d’Agordo e a quel tempo poteva contare per l’approvvigionamento di materia prima, quasi esclusivamente sulle produzioni cerealicole locali.
Con l’andar degli anni, parallelamente al divenir benessere, le varietà autoctone di orzo subirono una netta contaminazione genetica determinata dall’introduzione di varietà certamente più produttive, ma prive di qualsiasi caratterizzazione geograficamente collocabile. La destinazione produttiva del cereale divenne sempre più finalizzata all’alimentazione zootecnica, ma in questo modo l’interesse economico precipitò quasi al punto da determinare il totale abbandono della coltivazione, incapace a reggere l’insostenibile concorrenza con le fertili zone di pianura.
Si sa, però che molte volte quelle che erano miserie di un tempo, si riscoprono come ricchezze contemporanee, talune abitudini che una volta erano necessarie scelte imposte da contingenze economiche poco favorevoli, oggi le valorizziamo come pratiche salutistiche e, allora, millantando saggezza, con soddisfazione riaffermiamo: c’è qualcosa di nuovo nell’aria…
…anzi d’antico!
A cura di Paolo Tormen dal Col Maòr n. 4 del dicembre 2012