Il talento è una scintilla che trasforma l’ovvio in arte. Tronchi d’albero, ciocchi di legno abbandonano la loro naturale forma e raccontano una nuova emozionante storia. Questa storia e il nostro talento nascono in Valbelluna, laddove il Terche e l’Ardo confluiscono nel Piave, sotto l’attento sguardo delle Dolomiti.
È qui che Beppino Lorenzet respira le prime boccate di vita contadina, della quale intercetta l’essenza che si trasfonderà nella sua arte e dalla quale, al contempo, non vede l’ora di correre lontano. Per il giovane Beppino correre è l’unico modo per allontanarsi da una realtà che non sente sua: «La famiglia non poteva garantirmi grandi possibilità per studiare. Lo sport era una buona soluzione e le montagne erano ad un passo».
Sudore e chilometri percorsi lo elevarono ad atleta professionista e lo fecero scivolare, lentamente, verso i vent’anni. Era il tempo della naja. Lo battezzarono alpino mandandolo al Car a L’Aquila, nella Julia, poi nel gruppo sportivo a Teramo e dopo tre mesi lo avvicinarono a casa, al Distretto di Belluno. Terminati i 14 mesi di servizio – il sisma in Friuli aveva allungato la permanenza – il Gruppo alpini di Mel lo accolse a braccia aperte e… lo fece ancora una volta correre, in montagna. Due argenti nel 1979 ai campionati nazionali dell’Associazione, un bronzo nell’80, anno della grande esperienza alla maratona di New York e nel 1984 l’oro, il primo vinto per la Sezione di Belluno nella corsa in montagna a staffetta, un successo bissato due anni più tardi.
Nel frattempo l’altro suo grande talento, la scultura, iniziò ad imporsi irresistibilmente. «In realtà fin da piccolo sentivo dentro di voler fare lo scultore; collezionavo piccoli pezzi di legno di diverse qualità e cercavo di intercettarne le peculiarità». All’inizio il suo studio consiste in tante prove e grande passione, seguita da una buona didattica. «Alcune mie opere sono realizzate di getto, in altre inizio con un lavoro di falegnameria e proseguo senza bozzetti, altre sono preparate disegnando a mano sulla tavola, come questa…». È una storia scritta nel legno, carica di simbolismi che richiamano profumi, odori, sensazioni. E sembra veramente che l’occhio riesca ad intercettare tutti gli altri sensi per andare alla scoperta dei significati più reconditi dell’opera. In un’altra ci sono dei bambini che giocano a palla e le figure sembrano talmente in movimento che la fluidità delle azioni si percepisce nel legno.
Lo si nota anche in alcune sculture femminili, come la “Ballerina canadese”, elegantemente slanciata, immortalata durante l’azione. Ma i soggetti sono i più svariati, tutti pervasi da un’indiscutibile originalità: dai corpi deformi con i volti trafitti dalla sofferenza, ai diavoli ghignanti, alle opere sacre come il volto intenso dell’Assunzione o le tavole della Via Crucis, scolpite per la chiesa del suo paese. Lorenzet ricava dei modelli principalmente per i monumenti, realizzati lavorando il marmo e il bronzo in fonderia, perché «uno scultore non dev’essere condizionato dal materiale, ma deve far emergere l’idea». E l’idea si impone potente in una sua bellissima opera legata agli alpini, la “Vedetta del Bòz”. «Un colpo di vento – racconta Lorenzet – aveva inclinato sulla strada un grosso albero e ho detto al proprietario: ‘Perché non tagliamo la punta e ne facciamo una scultura?’». Un’impalcatura, una motosega per “sbozzare” e via di scalpello: in una settimana l’alpino era fatto e finito. Protetto dalla mantella, si erge imponente, severo, a “baluardo fedele delle nostre contrade”.
Accanto alla chiesetta degli alpini di Zelant c’è un’altra sua opera, realizzata in bronzo in omaggio ai Caduti. Un pastrano abbandonato aperto a terra, una scarpa con la fibbia arrugginita e un mazzo di girasoli. Su tutto domina una frase di Tucidide: “Il male non è soltanto di chi lo fa: è anche di chi, potendo impedire che lo si faccia, non lo impedisce”.
È un tema caro a Lorenzet e lo si ritrova anche in uno degli ultimi lavori, realizzati per il centenario del Monte Grappa nei pressi del rifugio Bocchette. Un teschio appoggiato su una gigantesca sedia, ad ammonire «i potenti della Terra che, seduti sui loro scranni, provocano solo morte». Negli anni Lorenzet ha partecipato a numerose competizioni, collezionato ben 22 primi premi, portando la sua arte in tutto il mondo: negli Stati Uniti, in Brasile, Messico, Giappone. È stato perfino in Svezia a scolpire nell’albergo di ghiaccio di Kiruna.
Ma Beppino è pieno di sorprese e racconta che ha lavorato anche in Egitto: «Nel 2010 ho vinto un concorso europeo e sono andato ad insegnare al Cairo, ad Alessandria d’Egitto a Damietta. Ho iniziato quest’avventura quasi per scherzo; mi chiedevano: ‘Sai l’inglese?’. ‘Ooooh, hai voglia!’, ho risposto io, e sono arrivato in finale con un finlandese, ma alla fine hanno preferito me». In Egitto aveva il compito di traghettare la scuola degli intagliatori locali dal barocco al moderno e alla prospettiva, per essere più competitiva con il mercato europeo. «Li ho portati allo studio di lavori più stilizzati, sempre nel rispetto della loro religione che vieta la riproposizione di elementi e figure umane: ad esempio hanno accettato la rappresentazione dell’occhio. Era il tempo di Mubarak. Ma nel 2011, dopo essere stato sei mesi nella terra delle piramidi, è scoppiata la guerra civile. Io son dovuto scappare e con i Fratelli Musulmani son tornati i divieti».
Negli ultimi anni Beppino ha scelto l’insegnamento e la voglia di trasmettere le sue conoscenze ai più giovani. «Mi avevano fatto capire che non c’era possibilità di vincere il concorso alla Scuola del Legno di Sedico, a causa del mio titolo di studio che non era idoneo. Ma il mio lavoro, tutti i premi e i concorsi che ho vinto mi sono valsi un punteggio. Così ce l’ho fatta!».
Oggi insegna a 150 ragazzi di parecchie classi e ha creato una scuola a sua immagine. «Molti mi chiedono quale sia la differenza tra l’artigianato e l’arte? Io non ho mai fatto troppa differenza, perché bisogna essere prima artigiano e solo dopo scultore e artista. Alcuni dicono che l’artigianato è utile, l’arte è superflua. Ma l’artigianato in architettura diventa design ed è quindi una forma d’espressione artistica…». «Ad ogni modo, io sono e mi sento esclusivamente uno scultore… con il cappello alpino nel cuore».
(Articolo di Matteo Martin, pubblicato nel numero di Maggio 2015 dell’Alpino)